Programma Dipartimentale - Diagnosi e terapie dei linfomi e delle sindromi linfoproliferative



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Responsabile Scientifico:
Prof. Pier Luigi Zinzani
(Dirigente Medico U.O.C. Ematologia, IRCCS AOU di Bologna, Policlinico di Sant’Orsola; Professore Ordinario, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, SSD Malattie Del Sangue; Direttore Medico Centro Studi di fase I in Ematologia, IRCCS AOU di Bologna).

Il gruppo di lavoro è composto da medici specialisti in Ematologia, sia ad afferenza universitaria sia ospedaliera, coadiuvati da medici in formazione specialistica in Ematologia, in periodica rotazione. Ad essi si affiancano un’infermiera di ricerca (case-manager nurse), 7 data manager e uno biostatistico/Research Manager. Le attività spaziano dalla diagnostica alla stadiazione, terapia e follow-up dei pazienti affetti da patologie linfoproliferative croniche ad espressione leucemica e linfomatosa, avvalendosi di percorsi di trattamento con presidi farmacologici standard e con farmaci innovativi, nell’ambito di studi clinici, per le linee di trattamento più avanzate.

Sono attualmente attivi 60 studi clinici di fase 1, 2 e 3 con nuovi farmaci per pazienti con differenti patologie e in diverse linee di trattamento. In cooperazione con il Programma Dipartimentale “Trapianto allogenico di cellule staminali emopoietiche e terapie cellulari avanzate”, il gruppo di patologia si occupa della valutazione preliminare e della gestione pre e post-procedurale dei pazienti avviati ad un programma terapeutico con linfociti CAR-T.

Linfoma di Hodgkin

È una patologia della cellula linfoide B matura, descritta per la prima volta nel 1832 da Thomas Hodgkin, che per primo nei intuì la natura tumorale. Ad oggi, esso rappresenta una delle malattie neoplastiche con le più alte probabilità di cura: infatti, circa l’80% dei pazienti può giungere alla guarigione grazie ad un approccio combinato che contempla l’utilizzo di farmaci chemioterapici e, in alcuni casi, della radioterapia. Le conoscenze sulla biologia di questa neoplasia e la comprensione delle interazioni che si instaurano tra le cellule tumorali (chiamate cellule di Reed-Sternberg) e le cellule di accompagnamento (che costituiscono il microambiente entro cui si sviluppa la malattia) hanno permesso di impiegare farmaci mirati e dotati di profili di tossicità sempre più ridotti, che trovano attualmente spazio nelle forme di malattia non responsive alla chemioterapia o in fase di ricaduta.

Sintomi

Più del 50% dei pazienti si presenta all’osservazione senza sintomi clinici, segnalando tuttavia la comparsa di una tumefazione linfonodale superficiale, più spesso sopraclaveare o laterocervicale, presente da qualche tempo, con tendenza all’aumento di dimensioni. Talora è documentabile tramite metodiche radiologiche l’aumento di dimensioni dei linfonodi più profondi, prevalentemente in sede toracica e mediastinica. Nella restante percentuale di casi il paziente giunge al medico con uno o più dei seguenti sintomi: febbricola o febbre (ondulante, remittente o continua), sudorazioni profuse, prevalentemente notturne, calo ponderale. In alcuni casi, può essere descritto un incoercibile e perdurante prurito, non correlabile ad una concomitante lesione della cute.

Diagnosi

Il sospetto clinico di malattia linfoproliferativa, in un contesto compatibile, deve essere sempre confermato da una biopsia linfoghiandolare, prelevando in tutto o in parte il linfonodo considerato maggiormente rappresentativo per dimensioni, consistenza, aumento di volume nel tempo. Alla diagnosi deve fare seguito la stadiazione, vale a dire l’identificazione topografica delle sedi linfonodali coinvolte. Ciò avviene mediante l’esecuzione di una tomografia computerizzata (TC) di collo, torace, addome e pelvi, con mezzo di contrasto iodato endovenoso, e di una tomografia per emittenti di positroni (PET), che aggiunge al dato morfologico TC un’indicazione metabolico-funzionale a carico delle sedi linfonodali considerate sede di malattia. La TC e la PET vengono ripetute al termine del trattamento, per identificare il grado di risposta: la documentazione di linfonodi dimensionalmente normali in TC e metabolicamente non ipercaptanti in PET configura un quadro di risposta (o remissione) completa. La PET viene inoltre eseguita dopo la somministrazione dei primi cicli di terapia, in quanto una sua precoce negativizzazione (assenza, cioè, di aree ipercaptanti) correla con una prognosi particolarmente favorevole.

Trattamenti

La chemioterapia a più farmaci (in Italia viene da almeno quarant’anni impiegato lo schema ABVD) rappresenta attualmente l’arma di trattamento più efficace in prima linea, in grado di determinare una risposta completa in almeno il 70-80% dei casi, risposta che può essere mantenuta a lungo tempo, anche indefinitamente. Negli stadi più precoci, è possibile abbreviare la durata della chemioterapia (ma generalmente mai ometterla), consolidando la risposta con un trattamento radioterapico loco-regionale sulle sedi linfonodali coinvolte (quando singole o tra loro anatomicamente adiacenti).

Il paziente che non risponde adeguatamente alla terapia di prima linea o che ricade può essere indirizzato ad una chemioterapia sovramassimale, se giudicato idoneo a sopportarne gli effetti collaterali (generalmente si tratta di un paziente di età inferiore ai 65 anni e con una buona riserva funzionale a carico del midollo osseo). Tale terapia è erogata a dosaggi più sostenuti di quella ricevuta in precedenza, in quanto finalizzata ad aggirare la resistenza che le cellule tumorali hanno sviluppato nei confronti dei farmaci chemioterapici convenzionali.

La terapia sovramassimale viene sempre fatta seguire dalla reinfusione delle cellule staminali autologhe (trapianto autologo), cellule che il paziente ha preventivamente mobilizzato nel sangue periferico (sulla spinta di farmaci chemioterapici o con l’aiuto del fattore di crescita granulocitario) e raccolto tramite accessi venosi periferici attraverso una procedura definita aferesi. Questo tipo di approccio permette di ridurre i tempi di recupero ematologico post-chemioterapia ad alto dosaggio, riducendo contestualmente il rischio di infezioni severe o manifestazioni emorragiche.

I nuovi farmaci, tra cui l’anticorpo monoclonale anti-CD30 brentuximab vedotin e gli inibitori dei checkpoint immunologici (anticorpi anti-PD-1), trovano spazio nel momento in cui il paziente risulti refrattario alla terapia sovramassimale o nel caso in cui sia impossibile procedere con questo tipo di strategia. Brentuximab vedotin e anticorpi anti-PD-1 consentono dunque ad un numero sempre maggiore di pazienti di ottenere una risposta di buona qualità laddove le strategie convenzionali di trattamento hanno fallito.

Linfomi non-Hodgkin

I linfomi non-Hodgkin sono tumori dei linfociti B e T che possono aver origine da qualsiasi tappa del processo di maturazione (ontogenesi) linfocitaria, riproducendo in tutto o in parte le caratteristiche morfo-funzionali della controparte cellulare normale: in altre parole, possono insorgere sia in linfociti immaturi o precursori (in questo caso condividendo molte delle caratteristiche cliniche e terapeutiche con le leucemie acute linfoblastiche), sia in linfociti maturi o periferici (linfomi non-Hodgkin di più frequente riscontro).

Per questi motivi, si tratta di un gruppo estremamente complesso di malattie, non riconducibili ad un’unica entità o paradigma, ma classificate sulla base di criteri in continua evoluzione, basati sulle caratteristiche peculiari di ciascuna entità in termini morfologici, genetici, molecolari, spesso con importanti ripercussioni sulle modalità di trattamento.

A livello mondiale, i linfomi sono al terzo posto fra le neoplasie, per incidenza, riconoscendo nel corso degli ultimi vent’anni un aumento rilevante: tale tendenza è destinata a mantenersi o, più probabilmente, a subire un’ulteriore progressione nel prossimo mezzo secolo, a fronte anche di tecniche diagnostiche sempre più sofisticate e raffinate. Non del tutto definite le cause, sebbene sia chiaro – come avviene per tutti i tumori – che la loro insorgenza e il loro sviluppo siano il prodotto dell’interazione tra fattori ambientali e fattori predisponenti.

Sintomi

Alcune forme di linfoma non-Hodgkin hanno comportamento aggressivo, aspetto che rende conto di una cinetica cellulare rapidamente proliferante, che si associa alla presenza di sintomatologia clinica correlabile all’espansione della massa tumorale (sintomi compressivi sulle strutture anatomiche adiacenti ai linfonodi che aumentano di volume) o al rilascio di mediatori chimici (febbre o febbricola, calo ponderale). I linfomi aggressivi, dato il loro esordio in un breve lasso di tempo e in considerazione della loro sintomaticità, richiedono un trattamento tempestivo, non appena posta la diagnosi.

Al contrario, esistono forme di linfoma non-Hodgkin definite indolenti, spesso riscontrate e diagnosticate in maniera occasionale, prevalentemente asintomatiche, che si manifestano con masse linfonodali a lenta ma progressiva crescita nel tempo. L’epoca d’esordio è difficilmente databile, e in alcuni casi non richiedono un trattamento immediato, potendo beneficiare di periodi di sola osservazione clinica di variabile durata, in considerazione dell’assenza di impegno clinico nel paziente. L’inizio differito di una terapia antiblastica in questi casi, infatti, non sembra avere un impatto sfavorevole in termini di prognosi.

Diagnosi

Deve essere confermata istologicamente mediante prelievo del tessuto linfoghiandolare interessato, rappresentato più frequentemente da un linfonodo patologico, ma in alcuni casi da un organo extralinfatico (stomaco, intestino, cute, mucosa delle vie aeree). La stadiazione, vale a dire l’identificazione topografica delle sedi linfonodali o extranodali coinvolte, richiede uno studio mediante tomografia computerizzata (TC) di collo, torace, addome e pelvi, con mezzo di contrasto, che viene ripetuto al termine del trattamento per verificare l’entità della risposta. La biopsia del midollo osseo, a completamento della stadiazione, è sempre richiesta. In alcuni casi, è utile una valutazione mediante tomografia per emittenti di positroni (PET), che dà informazioni su sedi di malattia all’esordio talora difficilmente evidenziabili mediante la sola TC. La PET può essere un utile strumento per confermare uno stato di risposta completa – vale a dire di assenza di malattia – al termine di un trattamento.

Trattamenti

La chemioterapia convenzionale è attualmente l’approccio di scelta sia nei linfomi B-linfocitari, sia nelle forme di derivazione T-linfocitaria, e trova impiego nella malattia con caratteristiche aggressive al momento della prima diagnosi, una volta completata la stadiazione, nonché nella malattia a comportamento indolente, in presenza di sintomi clinici e di un’elevata taglia neoplastica che giustifichino l’inizio di un trattamento. Nei linfomi di derivazione B-linfocitaria, la chemioterapia è combinata con l’anticorpo monoclonale anti-CD20, rituximab, molecola in grado di colpire specificamente le cellule maggiormente rappresentative della malattia, agendo di concerto ai farmaci antiblastici convenzionali migliorando i tassi di risposta e la sopravvivenza a lungo termine.

In alcuni casi selezionati, e se il contesto clinico lo consente, viene utilizzato un consolidamento con chemioterapia ad alte dosi seguita da reinfusione delle cellule staminali autologhe precedentemente mobilizzate (trapianto autologo) già come strategia terapeutica di prima linea. In generale, tuttavia, il trapianto autologo, quando effettuabile, rappresenta un’opzione da riservare ai pazienti con malattia in ricaduta o con risposta insoddisfacente alla prima linea. Numerosi nuovi farmaci vengono in aiuto nel trattamento della malattia che si ripresenta a distanza da una recedente risposta completa, nei casi scarsamente responsivi al trattamento convenzionale e laddove il trapianto autologo abbia fallito o risulti controindicato.

I nuovi farmaci, che hanno come bersaglio particolari molecole coinvolte nella crescita del tumore, agiscono ostacolando la progressione di malattia favorendo la morte cellulare e ripristinando il normale funzionamento dei tessuti patologici. In questo modo, si tenta di aggirare la chemioresistenza, offrendo ai pazienti pluritrattati nuove possibilità di cura, a fronte di profili di tossicità farmaco-correlata favorevoli e generalmente contenuti. Numerosi farmaci biologici sono già in commercio e disponibili su larga scala; altri sono in fase di sperimentazione all’interno di studi clinici controllati. In casi selezionati, inoltre, come terapia di salvataggio è possibile utilizzare i linfociti T del paziente riprogrammati genicamente per l’aggressione delle cellule linfomatose (cellule CART).

Leucemia linfatica cronica

La leucemia linfatica cronica (LLC) è una neoplasia clonale dei linfociti B maturi, che comporta un accumulo degli elementi neoplastici nel sangue periferico, nel midollo osseo e negli organi linfoidi secondari. L’espansione numerica delle cellule leucemiche avviene a causa dell’inibizione dei fisiologici meccanismi che regolano la morte cellulare programmata (apoptosi), indispensabile a garantire il ricambio dei tessuti sani e la loro corretta funzionalità. La LLC è la leucemia più frequente tra gli adulti del mondo occidentale, con un’incidenza di 5-10 nuovi casi/100.000 individui ogni anno. È una malattia tipica dell’adulto-anziano: l’età media alla diagnosi è di 65-68 anni, mente solo il 15% circa dei nuovi casi è diagnosticato prima dei 55 anni di età. Negli individui caucasici essa rende conto di circa il 25% di tutte le leucemie, mentre è estremamente rara nelle popolazioni asiatiche.

Sintomi

Le modalità di presentazione e il decorso clinico della LLC sono molto variabili. Più della metà dei casi non presenta alcuna sintomatologia di rilievo, e la diagnosi viene posta casualmente in corso di accertamenti laboratoristici di routine o eseguiti per altro motivo, in presenza di una linfocitosi persistente, pur in assenza di altri reperti obiettivi. Altra modalità di presentazione è la comparsa, generalmente in pieno benessere, di organomegalia o linfoadenomegalie superficiali: i linfonodi sono quasi sempre non dolenti, diffusi alle stazioni superficiali e profonde, di consistenza teso-elastica, mobili sui piani superficiali e senza la tendenza a confluire in pacchetti.

In un numero ridotto di casi la malattia esordisce con i sintomi e i segni dell’insufficienza funzionale del midollo osseo, causata dalla sostituzione del tessuto midollare da parte delle cellule leucemiche: è in questi casi che sono evidenti l’anemia e la piastrinopenia. La malattia ha un decorso cronico, con tendenza alla recidiva dopo trattamento, anche se questo è stato efficace. Sono attualmente poco frequenti i casi in cui la terapia è in grado di eradicare il clone leucemico.

Diagnosi

Viene posta all’esame emocromocitometrico in presenza di una linfocitosi periferica persistente; la conferma diagnostica deriva dallo studio del fenotipo immunologico di membrana dei linfociti, che nella LLC mostrano la coespressione di marcatori caratteristici (CD5, CD19, CD20, CD23) e la restrizione per una sola delle catene leggere delle immunoglobuline (kappa o lambda). Per parlare più propriamente di LLC, inoltre, è necessaria la presenza di almeno 5.000 linfociti con le caratteristiche sopra riportate nel sangue periferico.

Lo studio approfondito del tessuto midollare, mediante biopsia osteomidollare e mieloasporato, non è richiesto per porre diagnosi, ma si effettua allorquando risulti necessario intraprendere un trattamento citoriduttivo.

Lo studio del cariotipo (mappa cromosomica dei linfociti leucemici) e dello stato mutazionale dei geni che codificano per la regione variabile della catena pesante delle immunoglobuline e per la proteina TP53 (quest’ultima definita il “guardiano del menoma”, per via della sua importanza nella regolazione dei principali processi di sopravvivenza e proliferazione cellulare) è necessario per la scelta terapeutica e fornisce informazioni in senso prognostico.

Trattamenti

Il trattamento viene preso in considerazione solo in presenza di certe caratteristiche di malattia che ne denunciano l’attività clinica: aumento rapido e progressivo delle linfoadenopatie e delle organomegalie addominali, presenza di linfonodi di grandi dimensioni (o con effetti compressivi sulle strutture anatomiche adiacenti), anemia o piastrinopenia secondarie all’infiltrazione midollare, calo ponderale, febbre o stato di profonda prostrazione. Ciò significa che la sola linfocitosi, anche se in aumento nel tempo, non costituisce – da sola – un criterio indirizzante verso l’impostazione di una terapia. In altri termini, pertanto, è possibile convivere con una malattia attiva, ma non progressiva, anche per lungo tempo, senza una terapia specifica.

In presenza di criteri di trattamento, la scelta terapeutica è influenzata dall’età del paziente, dal suo stato generale di salute, dalla compresenza di altre patologie, nonché dall’assetto citogenetico (cariotipo) e molecolare (mutazione della proteina TP53) dei linfociti leucemici. Storicamente, la terapia della LLC ha avuto come cardini gli agenti alchilanti (clorambucile, ciclofosfamide) e successivamente gli analoghi purinici (fludarabina).

L’aggiunta dell’anticorpo monoclonale anti-CD20, rituximab, al trattamento chemioterapico ha migliorato sensibilmente la risposta alla terapia e l’intervallo tra una ricaduta e l’altra. Allo stato attuale, la chemioterapia assieme al rituximab rappresenta la prima linea di trattamento nei pazienti che non presentano mutazioni di TP53 e, al cariotipo, non evidenziano la delezione del braccio corto del cromosoma 17 (del17p). Qualora tali alterazioni fossero presenti, infatti, la chemioterapia risulterebbe poco o per nulla efficace: in questi casi, e in presenza di ricaduta di malattia, trovano spazio nuovi agenti terapeutici (ibrutinib, venetoclax) che – agendo sui geni che direttamente controllano la proliferazione cellulare, la maturazione e la morte programmata – aggirano la resistenza dimostrata dalle cellule leucemiche alla chemioimmunoterapia convenzionale.

I nuovi farmaci, assunti per via orale e per una durata di tempo indefinita (fino a progressione di malattia o finché risultano tollerati dal paziente), permettono di controllare la malattia risolvendone le manifestazioni cliniche caratteristiche ed assicurando al paziente in terapia un’ottima qualità di vita.

Leucemia a cellule capellute

La leucemia a cellule capellute è una sindrome linfoproliferativa cronica, indolente, B-linfocitaria, che si caratterizza per l’interessamento costante del midollo osseo e della milza. Gli elementi leucemici sono definiti “cellule capellute” o “tricoleucociti”, in quanto caratteristicamente presentano delle lunghe e sottili protrusioni citoplasmatiche circonferenziali, simili a capelli. Trattasi di una patologia rara, che rappresenta circa il 2-3% delle forme leucemiche dell’adulto negli Stati Uniti e nell’Europa occidentale; l’incidenza maggiore si registra nella quinta e sesta decade di vita, con una netta – e di fatto non spiegata – preponderanza del sesso maschile. Alla luce delle più recenti conoscenze biologiche, l’evento che porta allo sviluppo della malattia è riconosciuto nella mutazione del gene B-raf, che codifica per la proteina BRAF, di fondamentale importanza nel controllo della proliferazione cellulare.

Sintomi

All’esordio della malattia, i pazienti si presentano tipicamente con ridotti valori di leucociti (specialmente neutrofili e monociti), piastrinopenia e splenomegalia (quest’ultima anche imponente). È documentabile in misura variabile la presenza di cellule capellute circolanti nel sangue periferico. Sul piano clinico, i sintomi sono l’astenia e l’affaticamento, correlabili a diversi gradi di anemia, le ecchimosi diffuse (fino alla sindrome emorragica profusa) secondarie alla piastrinopenia, le infezioni ricorrenti e di tipo opportunistico, come conseguenza di una neutropenia profonda e duratura. Assai raro è l’interessamento linfonodale a carattere infiltrativo da parte delle cellule capellute.

Diagnosi

È posta combinando il dato morfologico (riscontro di cellule capellute circolanti) con lo studio immunologico del profilo di membrana degli elementi leucemici e con la valutazione immunoistochimica eseguita su biopsia del midollo osseo.

Trattamenti

Circa un quarto dei pazienti con diagnosi di leucemia a cellule capellute non richiede un trattamento immediato, data l’assenza di sintomi e una riduzione soltanto lieve dei valori di neutrofili o piastrine. Al contrario, la presenza (o comparsa) dei sintomi clinici e dei segni dell’insufficienza midollare (anemia con emoglobina inferiore a 10 g/dl, piastrine inferiori a 100.000/mmc e conta dei neutrofili inferiore a 1.000/mmc) giustifica un tempestivo inizio della terapia antileucemica. Gli analoghi purinici (cladribine e pentostatina) hanno rivoluzionato il trattamento della leucemia a cellule capellute negli ultimi trent’anni, determinando elevati tassi di risposta clinica, spesso mantenuta nel tempo ed in maniera continuativa anche per diversi anni. La malattia è tuttavia difficilmente eradicabile e va incontro a ricadute, clinicamente affini a quanto osservato all’esordio.

Il ritrattamento con analoghi purinici è spesso possibile nei pazienti in ricaduta, con un’efficacia paragonabile al trattamento di prima linea. In presenza di multiple ricadute sintomatiche di malattia, o nel caso in cui si ravvisino controindicazioni all’utilizzo degli analoghi purinici, trovano spazio l’anticorpo monoclonale anti-CD20 (rituximab) o, in via ancora sperimentale, l’anticorpo anti-CD22 coniugato con la tossina di Pseudomonas (moxetumomab pasudotox) e i farmaci inibitori della proteina BRAF mutata (vemurafenib).

Le collaborazioni a livello intra-istituzionale, nazionale e interazionale intercorrono con:

  • Collaborazione con Unità operative nell’ambito dell’IRCCS AOU di Bologna, Policlinico di Sant’Orsola: UO di Emolinfopatologia (Sabattini), UO di Radiologia (Lovato, Golfieri), UO di Medicina Nucleare Metropolitana (Fanti), UO di Medicina del Lavoro (Violante), UO di Dermatologia (Patrizi), Farmacologia clinica (Pea), Endocrinologia (Pagotto);
  • Collaborazione con strutture Università di Bologna: Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche e Dipartimento di Farmacologia e Biotecnologie (Brigidi, Turroni, Candela), Dipartimento di Medicina Specialistica, Diagnostica e Sperimentale, sezione Patologia Clinica (Bonafè);
  • Collaborazioni a livello nazionale: Società Italiana di Ematologia, Fondazione Italiana Linfomi;
  • Collaborazioni internazionali: European Hematology Association, Americas Society of Hematology, Hairy cell Leukemia Foundation, T-cell Consortium, Dana Faber Institute.

  • Collaboratore a programmi di ricerca AIRC per gli anni dal 1987 al 2007
  • Collaboratore a programmi di ricerca CNR per gli anni dal 1992 al 2001
  • Responsabile Scientifico di Unità di Ricerca di FIRB nel triennio 2006-2008
  • Responsabile Scientifico di Unità di Ricerca di PRIN 2007
  • Responsabile Scientifico di Unità di Ricerca di PRIN 2009
  • Responsabile di programmi di Ricerca Fondamentale Orientata (FRO) dell’Università di Bologna dal 2005 al 2011
  • Collaboratore Scientifico di Unità di Ricerca del Programma AIRC Progetto 5 x 1000 denominato “Genetics-driven targeted management of lymphoid malignancies” 2010
  • Principal Investigator del progetto DIAGNOSIS OF LYMPHOMA WITH FDG PET/CT GUIDED BIOPSY, Grant AIRC 2016-2018
  • Principal Investigator/Coordinatore dello Studio “Disegno di nuovi approcci terapeutici personalizzati per il Linfoma Diffuso a Grandi Cellule – Oncopassport” Bando Ricerca Finalizzata 2016, RF-2016-02363730, 2018-2020 (in corso)